Kreuzbach, nuovo romanzo di Federica Baglivo Weßel pubblicato da Nino Bozzi Editore, è un’opera che scava nella memoria collettiva per raccontare una generazione sospesa tra il trauma della guerra e il desiderio di ricominciare. Ambientato nella Baviera degli anni ’60, il libro dà voce a una gioventù appassionata, divisa tra ideali politici e ferite ancora aperte, tra la voglia di cambiare e la paura di essere travolta dal mondo.
In questa intervista, l’autrice ci guida dietro le quinte del romanzo, tra fonti orali, riflessioni personali e una scrittura che si fa strumento di indagine sul presente attraverso il passato.
La gioventù raccontata in Kreuzbach è appassionata, ribelle, ma anche vulnerabile. Che tipo di ricerca o riflessione hai compiuto per restituire la complessità emotiva e politica di quei ragazzi?
Beh, non è passato poi molto tempo rispetto a quando avevo anche io un’età simile ai ragazzi di Kreuzbach. Ero più estremista ed emotiva, come è normale che sia, credevo che tutto fosse lineare, politica compresa, e che il mondo fosse bianco o nero. Per quanto riguarda il patrimonio storico di una generazione per poco risparmiata dal fronte eppure centrata in pieno dal nazismo e dalla guerra, ho sempre amato attingere a fonti dirette. Senza nulla togliere allo studio sui libri, indispensabile per ricavare altri tipi di informazioni, trovo che le testimonianze abbiano un’autenticità difficile da replicare. Mi hanno aiutato molto i nonni di mio marito, oltre ai miei, e alcuni altri anziani più o meno loro coetanei.
L’ideologia attraversa il romanzo come una corrente sotterranea: affascina, divide, distrugge. Quanto pensi che oggi i giovani abbiano ancora bisogno – o paura – di credere in qualcosa?
Tutti hanno bisogno di credere in qualcosa, di dare uno scopo alla propria vita, di combattere (con vari strumenti) per un ideale. Nei giovani ancora alla ricerca della propria strada e della propria identità, questa necessità è ancora più forte. Tuttavia, soprattutto in mancanza di modelli positivi, questa energia rischia di essere deviata su posizioni estreme e di sacrificare la complessità a favore di slogan e rivendicazioni. Lo vediamo oggi quando i ragazzi preferiscono l’attivismo alla politica, l’urlare nelle piazze all’impegno concreto, faticoso e a volte frustrante di partecipare veramente ai processi democratici e istituzionali.
C’è una tensione costante tra speranza e disincanto. Quanto questo conflitto ti appartiene anche sul piano personale, e come lo hai trasposto nel romanzo?
Di base sono una persona molto ottimista, che crede che l’unica cosa utile da fare sia sperare e rimboccarci le maniche. Va bene denunciare le ingiustizie, ma lamentarsi e piangersi addosso non serve a cambiare le cose. A Kreuzbach molti assumono il perenne ruolo di vittime, che anche se giustificabile non dà alcun contributo concreto a una nuova partenza. La città ha già avuto troppe delusioni e batoste e cerca di preservarsi da nuovi dolori rifiutando di illudersi nuovamente: ma anche lei in fondo continua a sperare fino alla fine che prima o poi arrivi un “politico aquila” a dare una svolta al languore locale e a darle un nuovo ruolo nella storia.
Nel corso del libro, alcuni personaggi sembrano trovarsi intrappolati tra la voglia di cambiare il mondo e il timore di essere sopraffatti da esso. È una contraddizione ancora attuale?
Lo è. Si vuole cambiare, ma ci si sente troppo piccoli e insignificanti per farlo o si ha paura di rischiare. Il mondo sa essere molto crudele e spietato con i sognatori. Ma d’altronde, come i protagonisti sanno bene, “nessuno ha mai commesso un errore più grande di colui che non ha fatto niente con il pretesto che tanto poteva fare troppo poco”. L’oceano è formato da milioni di gocce e il cambiamento politico da milioni di singoli voti. Ci vuole solo il coraggio di iniziare e quello di perseverare, e questo vale in quasi tutti i campi della vita.
Se potessi parlare oggi con quei giovani di Kreuzbach, che cosa credi ti direbbero della loro lotta? E tu cosa diresti a loro?
Io parlo continuamente con i giovani di Kreuzbach. Sono sempre qui con me, mi confidano le loro paure, le loro gioie e le loro speranze. Vedono che il mondo intorno a loro è cambiato, non necessariamente in senso positivo, ma che le sfide, le domande e gli ostacoli rimangono in sostanza molto simili. Il male non è morto il 30 aprile 1945, e nemmeno l’8 maggio. La fascinazione per certe idee è ancora presente e se ne sono aggiunte di nuove, non meno pericolose. Il conflitto sulle patrie di Nathan è diventato più attuale che mai.
Io cerco sempre di incoraggiarli e di far capire loro che insieme, attraverso la loro storia, possiamo davvero smuovere qualcosa.